Piccola sorella Christine racconta le sue impressioni  e la sua esperienza nel campo di rifugiati a Calais, la cosiddetta  “giungla”, dove vivevano circa 10.000 migranti. Nel frattempo la situazione del campo è cambiata, ma la realtà di tanti uomini e donne, alla ricerca di una terra che li accolga, rimane la stessa.

Da parecchi mesi in Europa si continua a parlare di migranti e di crisi migratoria. Anche questo week-end abbiamo sentito parlare di centinaia di morti, naufragati nel Mediterraneo. Tante frontiere si chiudono, nuovi muri si innalzano … A volte si ha l’impressione che si parli di numeri o di pedine e non di persone: uomini, donne e bambini. Vorrei raccontarvi qualche incontro con questi nostri fratelli e sorelle venuti da lontano e che porto dentro di me.

Comincio da Calais, questa città portuale sulla costa francese, partenza per l’Inghilterra. Da diversi anni è conosciuta soprattutto a causa di migliaia di migranti presenti in attesa di poter raggiungere clandestinamente l’Inghilterra. Regolarmente Calais riempie la cronaca dei mass-media: evacuazioni, violenze tra migranti o con la polizia, gravi incidenti di migranti che tentano di saltare su un camion o di passare attraverso il tunnel della Manica. Quanti vi hanno perso la vita!

Il 12 maggio 2016 ho potuto accompagnare una delegazione di vescovi francesi a Calais, tra cui il presidente della conferenza episcopale, e il responsabile della Pastorale dei Migranti, dove lavoro. Abbiamo vissuto questa giornata lontano dalle cronache mediatiche o dai discorsi politici: era una giornata di incontri e di condivisioni, che mi ha molto toccata.
Già all’uscita della stazione ci siamo resi conto di trovarci in una situazione particolare. Sembrava di essere in una prigione: filo spinato, diverse barriere di inferriate disposte parallelamente tra di loro, terreni inondati … tutto è fatto per impedire ai migranti di avvicinarsi ai treni che partono per l’Inghilterra.
Siamo stati accolti e accompagnati per tutta la giornata dai responsabili e volontari del Secours Catholique (Caritas francese) e da due preti di Calais, tutti molto attivi. Ci hanno permesso di conoscere dal di dentro questa realtà, entrando nella bidonville e soprattutto ci hanno fatto incontrare delle persone.

Dopo una breve introduzione, eccoci partiti verso la grande bidonville alla periferia della città, che da un anno è il solo posto dove i migranti possono installarsi (al momento della nostra visita il loro numero era stimato tra i 3000 e i 4000). All’inizio era solo un terreno vago, con un piccolo centro di accoglienza. Ultimamente è stata realizzata qualche struttura di servizio, pur lasciando le persone in condizioni molto precarie.
Avvicinandosi al campo si vede innanzitutto l’immenso terreno evacuato in primavera, ove quasi tutto è stato distrutto; si notano qua e là, sul terreno, resti di stoffa o di plastica. Qualche mese fa qui c’erano ancora centinaia, se non migliaia (o più), di tende e baracche. Oggi rimane solo una chiesa e due o tre strutture comuni scampate alla distruzione di questa parte sud del campo.
Ci sono poliziotti ovunque e poi i migranti che vanno e vengono sulle stradine o sulla strada che costeggia la baraccopoli.

Ci avviciniamo al centro Jules Ferry, un piccolo centro di accoglienza per donne e bambini, qualche container per i malati e dei grandi capannoni aperti, per la distribuzione del cibo e la ricarica dei cellulari, poi dei container per le docce e un campo sportivo …

Oggi il tempo è bello (quasi niente fango!) e c’è tanta gente in giro, dei migranti, ma anche dei volontari e stipendiati facilmente riconoscibili dai giubbotti col nome delle associazioni a cui appartengono: Secours Catholique, Vie Active, e altre. Sono sia pensionati sia giovani, francesi o immigrati già integrati in Europa, che a loro volta si mettono al servizio dei loro fratelli e sorelle. Incrocio lo sguardo dei migranti: alcuni stanchi, altri sorridenti, altri ancora con uno sguardo profondo che la dice lunga sulla loro storia di erranza, di sofferenza. Ci sono tantissimi giovani, molti africani. Hanno percorso migliaia di chilometri prima di arrivare qua; certi sono passati dal deserto, altra hanno attraversato il Mediterraneo con imbarcazioni di fortuna. La storia di ognuno rimane nel loro intimo.

Costeggiamo una grande roulotte. Un pannello, scritto a mano con colori vivaci, in inglese e in arabo, indica: “MEDICINA ALTERNATIVA CONTRO I DOLORI”. Il responsabile, anch’egli migrante, ci spiega che fanno soprattutto dell’agopuntura per lenire i dolori. Allusione a tanti traumi, sofferenze e tensioni che le persone portano nella propria carne.

 

 

fra tende e baracche anche dei piccoli negozi

Un po’ più in là entriamo nel “Centro di accoglienza provvisorio” (CAP), installato di recente: un villaggio di container per 1500 persone; in ognuno ci sono 12 letti in uno spazio riscaldato e rassicurante. In mezzo qualche container più grande, spazi comuni come quello per le famiglie. Incontro un papà afgano con i suoi due bambini. Scambiamo qualche parola in inglese. Abita in un container con tutta la famiglia e uno zio. Non oso chiedergli se aspettano l’asilo in Francia o una possibilità di passare in Inghilterra. Poi il bambino reclama rapidamente la nostra attenzione, per giocare, come tutti i bambini!

Dopo la visita della parte strutturata, entriamo a piccoli gruppi nella “giungla”, la grande zona dove ognuno si installa come può: con tende o baracche. Lungo la strada principale troviamo piccoli negozi con prodotti di prima necessità, o anche dei “ristoranti” che vendono piatti preparati. Sono impressionata dall’ingegnosità e dalla tenacia delle persone, dalla loro forza di vivere.
Incontriamo un gruppo di Afgani. Siccome il nostro accompagnatore del Secours Catholique parla persiano, possiamo parlare un po’ di più con loro. Quasi tutti sperano di poter raggiungere l’Inghilterra, la metà di loro ha dei famigliari laggiù. Il capo del gruppo è un imam afgano. Dietro di lui vediamo una grande tenda: la moschea, una fra le tante, nel campo. I musulmani vi si riuniscono regolarmente per la preghiera. La fede ha un posto essenziale per loro … L’imam ci tiene a condurci un po’ più in là, fuori dalla strada principale, verso una baracca in legno, 3 metri per 4, è la scuola! Costruita dall’’UNICEF – ci dice. Ci sono una decina di persone che imparano il francese. Le frasi sulla lavagna lo testimoniano: “Bonjour”, “Comment allez-vous?”. Uscendo ci invita a prendere il tè, un buon té zuccherato, con qualche biscotto!

 

 

 

La chiesa eritrea ortodossa

Continuando il nostro percorso, vediamo più lontano la chiesa eritrea ortodossa, che si innalza in mezzo al terreno sgomberato, dove si mescolano terra e macerie. E’ fatta di legno e di teloni di plastica, a forma di croce. L’interno è attrezzato con cura, con immagini della Madonna e di qualche santo e con dei tappeti sul pavimento. Ci togliamo le scarpe ed entriamo per qualche minuto. Davanti a noi un uomo in ginocchio prega; sentiamo i suoi singhiozzi … La mia preghiera sale in silenzio, abitata da tutti questi volti, tutte queste persone incontrate. Guardo la croce al centro della chiesa. Quante sofferenze e quante speranze sono depositate ai suoi piedi?

Uscendo parlo un po’ col guardiano della chiesa (con l’inglese si riesce ad avere un minimo di comunicazione con la maggior parte delle persone). Mi dice quanto la fede sia importante per lui, per tutti i cristiani che si riuniscono in questa chiesa.

Durante tutta la visita, incontriamo diversi volontari e stipendiati, tante persone che si mettono a servizio. Molti vengono da fuori: da altre parti del dipartimento o della Francia; molti anche dall’’Inghilterra.

Più tardi incontro fratel Johannes, giovane benedettino belga, molto impegnato con i migranti. Lo riconoscono facilmente col suo lungo abito e la sua presenza di religioso sembra essere importante. Mi parla del progetto di una casa per giovani volontari e qualche migrante, in collaborazione col “Secours Catholique”, impostata su una vita comunitaria semplice, a servizio dei migranti o di altre persone in condizioni precarie, e una vita di preghiera e di fede. Ascoltandolo ho voglia di restare e investirmi nel progetto …

Il pomeriggio è dedicato all’incontro con i parrocchiani e i volontari. Monsignor Pontier[1] li invita a parlare della loro esperienza, a esprimere gioie e difficoltà: “Questa esperienza che cosa ha smosso in voi?” Poco a poco le persone prendono la parola: “Non ho potuto restare indifferente”, “Abbiamo accolto dei migranti a casa nostra, sovente per ricaricare il cellulare, a volte anche per la notte, quando c’era posto”; “Riceviamo tanto da loro, molto di più di ciò che noi possiamo dare”. E’ un momento forte di ascolto, di condivisione. Emergono anche le sofferenze: “Mio figlio non viene più a trovarmi da quando ricevo i migranti”. Si sente quanto la fede sia il motore per queste persone, senza tanti discorsi. Mettersi a servizio, dare una mano come si può, senza far rumore …

Terminiamo la giornata con l’Eucaristia in parrocchia, celebrando la presenza di Cristo in questa realtà, pane del cammino, per continuare a servire …

Quello che vedo in questa giornata a Calais, evoca in me la realtà in Seine-Saint-Denis[2], dove abito. Anche là ci sono tanti migranti, certo meno concentrati, eppure mi viene da pensare a tutte quelle persone che incontro quando faccio l’accoglienza al Secours Catholique, ogni lunedì, tutti quei volti che portano i segni dell’esilio, ripenso alla storia di ognuno. Penso a quel giovane a cui aveva no ucciso quasi tutta la famiglia, davanti ai suoi occhi; o un altro giovane, bengalese, amputato ad una gamba … A volte possiamo aiutarli per le procedure amministrative per ottenere i documenti, o l’assistenza sanitaria, oppure li aiutiamo per le spese di trasporto. Per altre cose siamo piuttosto impotenti. Però possiamo sempre offrire un cuore aperto, un cuore che ascolti, una parola di incoraggiamento o di comprensione. E per molti di loro è già qualcosa.
Penso anche alle piccole sorelle che vivono con me: Catherine, che fa corsi di francese nel quartiere, e Anne Marie che, nelle sue visite all’ospedale di Saint Denis con la pastorale dei malati, incontra tanti immigrati.

Naturalmente penso anche al mio lavoro al Servizio Nazionale della Pastorale dei Migranti. Non è direttamente con le persone migranti, ma è al servizio dei migranti in tutte le diocesi, attraverso la rete dei gruppi che s’impegnano in questo settore. Sono in contatto con la realtà dei migranti in tutta la Francia: lavoro di sostegno, di accompagnamento delle equipe, di formazione. Sono molto toccata dalla generosità e dalla creatività delle persone che continuano a occuparsi dei fratelli e delle sorelle migranti, nonostante il clima di paura e di xenofobia che ci circonda. Vi porto qualche esempio: a Nizza, la pastorale dei migranti raccoglie cibo, abiti e prodotti per l’igiene  personale, che poi distribuisce ai migranti, che sono trattenuti alla frontiera tra l’Italia e la Francia. A Besançon c’è un gruppo che organizza attività ricreative e incontri, nei mesi estivi: gite, serate di barbecue, week end in campagna presso famiglie francesi. A Mans, la delegata si è battuta per ottenere i documenti per diverse persone, c’è riuscita e ha persino trovato un lavoro per loro, in un’impresa locale. Potrei citare tanti altri esempi che ho potuto conoscere in questi ultimi mesi. Grazie, Signore, per tutte queste persone che si coinvolgono!

La Chiesa ha detto più di una volta che le migrazioni sono un segno del nostro tempo. Sono convinta che attraverso di esse Dio ci chiami e ci voglia dire qualcosa. La nostra umanità e la nostra fede ne sono interpellate. Apriamo il nostro cuore o lo chiudiamo? Ogni incontro ci invita ad un cammino per diventare veramente umani. E ci spinge oltre, su questo cammino, a seguire il Cristo, presente in ognuno dei più piccoli (Mt. 25).
Quanto è importante che i cristiani siano presenti nei luoghi di frattura! E non c’è qui anche una chiamata per i religiosi, per le religiose, per la Fraternità?

[1] Il presidente della Conferenza Episcopale Francese

[2] Dipartimento alla periferia di Parigi